Con i suoi quasi 106 anni è la "più grande dei cesenati", anche se non ama sentirselo dire. E' Renata Bianchi, nata a Cesena il 16 ottobre 1906, che oggi ha ricevuto la visita di don Giordano Amati, parroco del Duomo, e del Sindaco Paolo Lucchi.
L'ultracentenaria Renata si occupa ancora della sua casa in centro - la stessa in cui arrivò appena sposata dopo essere cresciuta nella zona di San Pietro - in autonomia, con il solo supporto - per qualche ora al giorno - di un'assistente domiciliare e del discreto ma attento controllo dei vicini, oltre che di don Giordano, che la va a trovare periodicamente.
Emozionata e un po' stupita che questa volta insieme al parroco ci fosse anche il Sindaco, la signora Renata si è mostrata felice della visita e ben presto si è lasciata andare ai tanti ricordi dei suoi molti anni.
Indicando con il braccio la credenza della sala da pranzo, mostra con fierezza e orgoglio le fotografie delle persone a lei care, molte delle quali purtroppo oggi non ci sono più.
La vita, infatti, ha riservato dure prove alla signora Renata: è rimasta vedova quando era ancora giovane, e ha perso due figli in tenera età (a tre anni il primo e a18 mesi il secondo). Anche il terzogenito se n'è andato troppo presto, lasciando l'anziana madre sola.
E nonostante tutto, Renata non si è mai persa d'animo. Dopo una vita passata a lavorare nella fornace di S. Egidio come operaia, una volta arrivata all'età della pensione non ha potuto godersi il meritato riposo, ma è stata costretta a cercare nuovamente impiego come colf per arrotondare il magro assegno percepito.
Particolarmente vivi i suoi ricordi del tempo di guerra - la fame, la miseria, le continue corse al rifugio antiaereo sotto la rocca - e, in particolare, di quando fu assoldata per lavare gli indumenti dei militari inglesi.
"Mi ero offerta come volontaria - racconta -, con la speranza di portare a casa un po' di sapone, perché io non ne avevo neanche l'ombra.
Terminato il primo incarico il capitano, mi chiese quanto dovevo avere e io risposi che non volevo niente e che, se proprio voleva, poteva darmi qualcosa da mangiare per la mia famiglia. Il capitano mi rispose che mi avrebbe dato da mangiare, ma che voleva pagarmi. Così da quel giorno divenni la lavandaia degli inglesi e mi trasferii nelle cantine dell' albergo Leon D'oro. E premurosamente, ogni volta che pranzavano e cenavano, il capitano veniva chiamarmi per portarmi di sopra a tavola con loro".
Ufficio stampa
Federica Bianchi